Mareme Cisse: «Non chiamatela cucina etnica, è solo un’etichetta che toglie valore al cibo». E al lavoro delle persone

Per lei, Ginger è il quinto figlio: nato nel 2014, è «il più piccolo». Gli altri quattro, di anni, ne hanno tra i venti e i dieci. Solo che Ginger non è esattamente quello che uno si immagina quando pensa a un figlio: è un ristorante.

l nome completo è Ginger-people&food, si trova ad Agrigento, in Sicilia, fa parte dell’Alleanza Slow Food dei cuochi e ha appena ottenuto la Chiocciola, il riconoscimento più prestigioso della guida Osterie d’Italia di Slow Food. 

Tre tavoli in salotto

mareme cisse Ginger
© Fabio Florio

Lei, la mamma, si chiama Mareme Cisse. Originaria del Senegal, in Italia dal 2004, di professione fa la cuoca. “Innovativa, creativa, energica”: così viene descritta sulle pagine del sito web di Ginger-people&food. Chiacchierando con lei al telefono l’energia arriva eccome, questo è certo: «Sono gelosissima del mio ristorante – racconta –. Ci vado tutte le mattine, anche se a pranzo apriamo soltanto il sabato e la domenica: mi piace essere qua». Ama il suo lavoro, ama la cucina, ama quello che il cibo porta con sé: le vite e le storie di donne e di uomini. E sono l’energia, la caparbietà, la forza di volontà quelle che le hanno consentito di superare le difficoltà incontrate nei primi tempi in Italia, vissuti senza lavoro, senza conoscere la lingua, senza gli affetti della sua famiglia in Senegal, ma con i figli da crescere. «Dovevo lavorare e avevo una sola arma: la cucina. Ho sempre cucinato, fin dai tempi in cui, nei mesi estivi di vacanza da scuola, andavo nel ristorante delle mie zie a Dakar. Così, nel 2005, ho cominciato a cucinare a casa mia qui ad Agrigento e a servire le persone che venivano a mangiare da me, sedute in tre tavolini allestiti nel salotto».

«Il primo mese venivano soltanto senegalesi – ricorda oggi –. Poi, un giorno, è arrivato un ragazzo con due amici: tre giorni più tardi mi ha richiamato, dicendomi ‘Siamo in sette’. Presto si è sparsa la voce che c’era una donna senegalese che cucinava bene e che accoglieva gli ospiti a casa sua. Hanno cominciato ad arrivare gli agrigentini, poi anche i turisti. Mi chiamavano per compleanni, per matrimoni e anniversari, ogni volta che qualcuno aveva qualcosa da festeggiare». Nel frattempo, qualche lavoretto nei locali della zona: ma niente che le desse la giusta stabilità, nessun contratto serio.

La svolta arriva qualche anno dopo, nel 2013. «Ho ricevuto una chiamata e dall’altra parte del telefono c’erano quelli della cooperativa Al Kharub: stavano organizzando una cena di raccolta fondi e avevano pensato di rivolgersi a me». Al Kharub, che in arabo significa carrubo, pianta simbolo dell’area mediterranea, è una cooperativa sociale di Agrigento che si occupa dell’inserimento lavorativo di persone con disagio sociale e dell’integrazione sociale-multietnica di cittadini extracomunitari, migranti, profughi o rifugiati. La cena diventa più di una cena: è l’occasione per conoscersi reciprocamente. Da quell’incontro nasce l’idea di aprirsi al pubblico. Prima, nel 2014, come locale per l’asporto; due anni più tardi, sulla scia anche dei tanti clienti che chiedevano di potersi sedere a mangiare i piatti di Mareme Cisse, come un vero e proprio ristorante. «Alla cooperativa devo tanto e li ringrazio ogni giorno – spiega la cuoca – perché mi ha dato una mano e, soprattutto, un futuro».

Cucina etnica proprio no

Al ristorante Ginger-people&food si mangiano piatti siculo-senegalesi. Che cosa significa? Che, attraverso i piatti, Mareme cerca di far riscoprire le comuni origini delle due tradizioni culinarie. Anche mescolandole e rivisitandone le ricette, se necessario. «La mia cucina utilizza soprattutto prodotti del territorio e i Presìdi Slow Food» spiega. Ed è verissimo: il pomodoro buttiglieddru di Licata, il fagiolo cosaruciaru di Scicli, il caciocavallo di razza modicana, l’aglio rosso di Nubia, la fava cottoia di Modica, per esempio. Ingredienti locali inseriti in una visione culinaria globale nelle ricette, nei sapori, nelle rielaborazioni.

mareme cisse Ginger
© Fabio Florio

Nel menù, il cous cous la fa da padrone – nel 2019 la chef ha vinto il campionato mondiale di San Vito e lei, in carta, ne propone tre versioni (di carne, di pesce, vegetariano) – «ma la mia cucina non è solo questo» puntualizza lei. I suoi piatti cambiano ogni mese – «ci sono clienti che aspettano solo quel momento!» racconta con un pizzico di orgoglio – ma non mancano mai riso, legumi e ingredienti come la manioca e il miglio, che «alcune persone non hanno mai mangiato e che assaggiano da me per la prima volta». E poi la citronella, le alghe, bevande come il tamarindo… insomma, una cucina che riprende i piatti isolani accostandoli a sapori ai quali non siamo abituati. 

Ma non chiamatela cucina etnica! «Il cibo etnico, per come lo vedo io, non esiste: è un’etichetta, niente più. Molti lo associano a un sapore piccante, pensano che significhi mangiare tanto e che quello che c’è nel piatto non ha valore». Per lei, invece, il cibo ha un gran valore: «Chi entra nel mio ristorante è come se salisse sul treno della mia vita – racconta Mareme Cisse –. Sono cresciuta in una famiglia numerosa: quando ci sediamo a tavola parliamo, ci apriamo, ascoltiamo e capiamo i problemi altrui. Mangiare significa prendersi il tempo da dedicare ai nostri commensali». Anche cucinare per gli altri ha lo stesso significato, e i risultati lo dimostrano: «Abbiamo prenotazioni per aprile, anche da clienti che arrivano dall’America – conclude –. Ed è bello che il mio lavoro venga apprezzato anche qua, lontano dal Senegal dove sono nata. Bello perché tre dei miei figli sono nati in Italia e io stessa, oramai, mi sento e definisco siciliana».

Marco Gritti, m.gritti@slowfood.it

www.fondazioneslowfood.com

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